Elena Pontiggia

“Iudice . La persistenza del disegno”

Quando, nel 1925, Salvador Dalí tenne la sua prima personale alla Galleria Dalmau di Barcellona, pubblicò come unico testo in catalogo tre aforismi di Ingres, tra cui la famosa affermazione: “Il disegno è la probità dell’arte”. Pochi anni prima De Chirico aveva identificato la classicità stessa con la centralità del disegno, l’arte divina, come amava definirla: “I nostri maestri, prima di ogni altra cosa c’insegnarono il disegno; il disegno, l’arte divina, base di ogni costruzione classica, scheletro di ogni opera buona, legge eterna che ogni artefice deve seguire”.
Che cosa c’entrano Dalí, Ingres e De Chirico con l’opera di Giovanni ludice?
Poco, direte voi. E avete ragione. Non era nostra intenzione gravare di una genealogia troppo alta e ingombrante, di padri nobili e non richiesti, la ricerca di un giovane artista contemporaneo.
Tuttavia qui, vogliamo dire nell’opera di ludice, c’è da segnalare il fatto, insolito e a nostro parere anche incoraggiante, di un artista che si concentra sul disegno e che, a dispetto delle circostanze poco favorevoli, si ostina a praticare questa tecnica difficile, lenta, non premiata da nessun genere di vantaggio pratico o immediato. “i disegni stentano inverosimilmente ad entrare nel gusto del pubblico” scriveva Sironi nel 1930. Da allora le cose non sono cambiate, se non in peggio. Basti pensare (è solo un indizio, ma significativo) alle quotazioni che in generale riescono a spuntare le opere su carta, anche importanti, rispetto alle opere su tela, anche secondarie o addirittura mancate. È un difetto di prospettiva che ha colpito il mondo contemporaneo: non tutto, come le citazioni che prima riportavamo stanno a dimostrare, ma in larga parte.
Le ragioni di questo strabismo sono molte, e ci guardiamo bene dall’analizzarle in questa sede. Quello che invece vogliamo dire è che, nel lavoro di ludice, i disegni non sono una tecnica marginale, una dimensione minore, una ricerca preliminare e in qualche modo subordinata rispetto all’opera maggiore. No, no. Sono proprio l’opera maggiore. Senza nulla togliere ai dipinti, c’è nei suoi disegni una ricchezza di linguaggio, e staremmo per dire di colore, che ne fa una sorta di opera completa.
Chiediamo scusa al lettore per questo preambolo, senz’altro noioso, che gli abbiamo inflitto, ma il fatto è che siamo talmente abituati alla sufficienza con cui di solito si guarda ai disegni (se possiamo citare un aneddoto personale, ricordiamo bene quando un ignoto visitatore, all’ingresso di una mostra, rifiutò di entrare dicendo alla persona che lo accompagnava: “Sono solo disegni”. E si trattava di una serie di carte strepitose di De Pisis.) che certi preamboli forse non sono eccessivi.
Ma adesso veniamo ai disegni di ludice. Proprio attraverso il disegno l’artista siciliano riesce più facilmente e più compiutamente a trasformare l’iperrealismo da cui prende le mosse in una forma di realismo metafisico. Nel suo lavoro, e il caso non è molto frequente nel panorama contemporaneo, il disegno non è l’antipasto, ma il pasto. Non è la prefazione, ma il testo stesso. Non è l’opera preparatoria, ma l’opera senza aggettivi.
Facciamo qualche esempio. Prendiamo qualcuna delle sue carte che rappresentano un interno e che si soffermano su un ambiente domestico, giungendo a descriverlo nelle pieghe più nascoste.
ludice parte da un’osservazione spietata delle cose. Nessun padrone di casa permetterebbe a cuor leggero a qualcuno di entrare in quelle camere ancora in disordine, in quei letti in cui una coppia cerca intimità sotto l’ampio arabesco di una corona del rosario; o in cui dorme una donna malata, gravata dalla fatica, o semplicemente colta da quel caldo soffocante che induce alla smemoratezza, all’oblio.
Nessuna massaia avveduta sarebbe contenta di presentarci quei lavelli ingombri di stoviglie, di posate, di piatti ancora da rigovernare. E nessuna persona di comune educazione si dimenticherebbe di chiudere la porta del bagno prima di lasciarsi andare a una qualsivoglia manifestazione del suo libero arbitrio (per dirla con la sarcastica espressione di Gadda). Così come nessuna modella accetterebbe di mostrarsi nell’angolatura in cui il corpo è più rilasciato e in cui le imperfezioni che non risparmiano nemmeno la giovinezza risultano meno nascoste.
Ma, ancora, chi è quel pittore che ci inviterebbe in uno studio dove il letto è troppo vicino al cavalletto, e per di più è ancora sfatto: segno di una notte insonne, forse disturbata dal troppo lavoro, da quella concentrazione inappagata che non prelude al riposo ma a una meditazione ossessiva che non lascia tregua?
No, nessun pittore sarebbe così ingenuo, e prima di farci entrare avrebbe provveduto a ripulire almeno sommariamente l’ambiente, a togliere le tracce di vita vissuta, a eliminare i segni dell’esistenza che sono sempre un po’ disturbanti.
No, quelle porte di casa dovrebbero rimanere rigorosamente chiuse. E invece ludice le apre, ci introduce in quegli interni così poco truccati. Evidentemente vuole farci vedere la realtà com’è, senza nessun cosmetico.
Perché quelle porte ci fanno entrare nella casa della vita, che è appunto piena di cose che non vogliamo vedere…
Ma anche la natura non è diversa. ludice si trova a vivere, per caso ma anche per scelta, in una terra fra le più belle del creato. Gli basterebbe poco, spostarsi minimamente, muoversi di qualche passo, per trovare paradisi turistici e paradisi non turisticizzati. Paradisi, comunque. Invece disegna spiaqge senza nessun abbellimento, frequentate da gente qualunque distesa al sole o raccolta in gruppo. Il corpo non offre nessun lenocinio, né l’artista sceglie l’inquadratura migliore, quella più accattivante o seducente. Anche qui, ci mostra le cose come sono. Anzi, ci mostra la natura nei suoi aspetti più dimessi, più comuni.
Realismo, iperrealismo, dunque? Si, potremmo dire cosi, per quanto le etichette siano sempre inadeguate e stiano all’infinito dell’arte come il cucchiaio bucherellato della fiaba di Grimm sta alla distesa del mare.
ludice si serve della fotografia come punto di partenza, e attraverso una tecnica sapiente, affinata in lunghi anni di esercizio paziente e incontentabile. riesce a descrivere i dettagli e le pieghe della vita. Anche quelle più anti-estetiche. Dipinge le rughe, l’obesità, gli inestetismi della vita. A questo punto però, interviene il disegno, con la sua dimensione metafisica.
Ma come, non abbiamo detto che il disegno dell’artista siciliano è una fotografia che indaga la realtà millimetricamente, realizzando una sorta di trompe-l’oeil, per cui ogni cosa è aderente al suo modello originario?
È vero, ma è vero anche il contrario. (Nell’arte la coincidentia oppositorum di cui parlava Niccolò da Cusa si constata piuttosto spesso.) Il fatto è che attraverso un colore mentale, come il colore ridotto al solo alternarsi di bianco e nero della matita (anche se in ludice il bianco e nero sono in effetti una miriade di colori, e più ancora lo è il grigio, che si moltiplica in infinite gradazioni, catturando sempre diverse quantità di luce, e quindi dando luogo a una continua variazione tonale), spazio e tempo si confondono.
La realtà diventa rappresentazione e la rappresentazione diventa il luogo dell’altrove. Come in un sogno, o in un’esperienza virtuale.
Proprio il realismo, insomma, mette fra parentesi la realtà. Tutto è così evidente da diventare incomprensibile. Tutto è così chiaro da sembrare inspiegabile. Tutto è così conosciuto da risultare ignoto.
Si assiste allora a un effetto di straniamento, un po’ alla Wyeth. La scena quotidiana appare piena di enigmi, di ambiguità, di tranelli.
Forse ludice vuole dire proprio questo. Che il mistero non va cercato nell’esotico, nel misterioso. Il mistero si annida nelle cose più familiari: niente è più sconosciuto dell’amico che crediamo di conoscere come noi stessi. Del resto, cosa c’è di strano? Forse che conosciamo noi stessi?
Il disegno, portato a quell’altezza in cui la tecnica non si accontenta più di un banale virtuosismo (il virtuosismo è sempre banale: solo gli ingenui se ne meravigliano), contribuisce allora a svelare il segreto delle cose. O meglio, a svelare che le cose racchiudono un segreto. Proprio quelle più familiari.
Proprio quelle più evidenti.
Per questo l’espressione “realismo metafisico”, nel caso di ludice, non è una contraddizione. Perché ludice sa bene (l’ha imparato e vuole insegnarcelo) che il visibile si divide in due parti sostanzialmente quali: il visibile propriamente detto e l’invisibile.

in Catalogo Giovanni Iudice
Gam Palermo 2009
edizioni Charta, Milano