il rumore del mare.
Cosa fa dell’uomo di ogni tempo un homo viator? Cosa spinge cioè l’essere umano a muoversi dal luogo in cui si trova per raggiungerne un’altro? Tante possibili risposte potrebbero essere date a questa domanda, che in realtà altro non è se non una domanda di senso. La ricerca della felicità è stata da sempre la forza motrice del cammino dell’uomo, un cammino che spesso si colora delle tinte della disperazione, ma che motiva l’accettazione del sacrificio, il coraggio del rischio. Cosa ci sia dietro a una scelta come quella fatta da tanti “migranti” non è poi così immediato comprenderlo: se è possibile intuirne i tratti generali, cioè da cosa si fugge e dove si spera di approdare, non è altrettanto facile decifrare le ragioni profonde che si nascondono nell’animo umano, ragioni queste il più delle volte non chiare nemmeno a colui che decide di intraprendere il “viaggio Ritornano alla mente le parole che Dio rivolge ad Abramo:
“Vattene dal tuo paese, dalla tua patria e dalla casa di tuo padre, verso il paese che io ti indicherò.” (Gn 12,1). È un cammino senza alcuna certezza, un viaggio che apparentemente non ha altra meta se non la fede in un Dio bizzarro, che spinge a superare i propri limiti, a tuffarsi nell’ignoto mare, che può dare la morte o la vita.
Di fronte a una tale prospettiva c’è chi si ferma, chi non è disposto a rinunciare alle proprie sicurezze magari acquisite con grande fatica e rimane in una situazione di stallo, che però ha già l’odore del sepolcro, probabilmente imbiancato da tempo.
Di contro c’è chi non rinuncia alla vita, chi sente emergere dentro di sé il bisogno di orientare il proprio sguardo su nuovi orizzonti e preferisce affrontare anche i pericoli del viaggio pur di avere un’altra opportunità, correndo anche il rischio di non trovare ciò che si cerca e di rimanere ulteriormente deluso. Tuttavia questo non spegne il bisogno di essere vivo e di stringersi nella solidarietà del disagio comune; ci si convince che vale la pena intraprendere il cammino, ci si affida a situazioni e mezzi forse tra i meno sicuri, perché si sente troppo forte il bisogno di approdare a lidi di pace, ben diversi da quelli insanguinati da cui si fugge.
Allora il rumore del mare, solcato da imbarcazioni di fortuna, ha tutto un’altro suono: alle orecchie di chi non si rassegna all’ingiustizia e alla violenza, ‘infrangersi dei flutti sulla carena della barca è un suono di speranza: rincorrere la vita non è più un desiderio, ma un sogno che sta per realizzarsi. Così probabilmente apparirà la Sicilia agli occhi lucidi se pur stanchi dei numerosi migranti che approdano sulle nostre coste.
Com’è diverso questo viaggio da quello di Abramo! Quanto simile è invece la condizione del cammino: si affrontano mille ostacoli, disagi di ogni genere e quando i piedi nudi toccano la molle consistenza della sabbia, si fa strada la convinzione che in realtà il viaggio è appena iniziato.
Qui invece comincia il percorso di chi abita la “terra promessa”, di chi si trova dall’altra parte della “fuga” e costituisce invece la speranza. Si, perché siamo tutti accomunati nel migrare: spesso lo si fa per fuggire ma anche per accogliere, andare verso, camminare accanto, risollevare, curare e custodire quanto di più prezioso abbiamo ricevuto. È la vita, che non ha bisogno di essere relegata dentro una determinata cultura, perché pervasa da molteplici espressioni culturali e diventa fonte di ricchezza per l’uomo di ogni tempo; a maggior ragione per l’uomo contemporaneo, troppo distratto dal mondo virtuale racchiuso nel palmo di una mano, ma poco attento o forse poco disposto alle relazioni concrete.
L’uomo di questo tempo storico, infatti, viene quotidianamente sommerso dalla valanga di informazioni che arrivano da ogni parte del pianeta, mentre i contenuti importanti sono soffocati da una non ben definita quantità di informazioni futili, se non addirittura dannose. Proprio da qui nasce l’esigenza di veicolare ancora una volta un messaggio forte, stavolta però lasciando parlare l’arte.
In una terra come la Sicilia che possiamo definire bedda, cioè ricca di storia, cultura e arte, ma anche marturiata perché spesso teatro di tragedie umane sotto diversi punti di vista, si colloca lo sguardo attento di Giovanni Iudice, che coglie uno dei drammi della nostra contemporaneità, trasformandolo in arte pittorica.
La precisione dell’immagine così realistica da sembrare fotografica non rappresenta solamente l’estro dell’artista, ma comunica un forte messaggio, capace di porre domande a coloro che osservano con occhio attento i migranti clandestini della collezione lannaccone, esposta a Caltagirone presso il Museo diocesano, dopo l’allestimento fiorentino.
Sappiamo bene come l’immagine oggi sia diventata uno dei principali mezzi di comunicazione, che per la sua immediatezza spesso dice molto più delle parole: catturare e immagazzinare immagini è dunque la via brevis per cominciare uno dei possibili percorsi di conoscenza. Il sottotitolo di questa riflessione denuncia infatti che il “guardare fuori” è il primo approccio per scoprire che è necessario “vedere dentro”, confrontandosi con il silenzio più che eloquente delle opere di Iudice.
Avere occhi in grado di guardare per raccogliere il dato non implica però necessariamente un effetto performante. La mostra pertanto può diventare l’occasione per regalarsi del tempo, per stoppare la frenesia dei ritmi quotidiani e lasciarsi arricchire dalla forza comunicativa delle opere esposte. Guardare per vedere è il binomio per relazionarsi con chi ti passa accanto e comprendere quanto non si è dissimili da chi ha lasciato tutto alla ricerca dell’ignoto.
I dipinti esposti si configurano perciò come finestre aperte sul dramma dell’uomo contemporaneo, che portano l’osservatore a vedere dentro di sé, a vivere intimamente il dramma umano, a scoprire e attivare le potenzialità nascoste nelle pieghe del suo essere “uomo-accanto” all’uomo del nostro tempo.
All’interno della suggestiva Cappella neogotica del Museo, la forza comunicativa delle opere viene supportata da un allestimento che fa entrare quasi concretamente nel dramma dei migranti, anche attraverso un’ambientazione simbolica del “barcone”, in cui le opere sembrano quasi gli oblò di una nave
stracolma di clandestini. Altrettanto intenso è anche il significato ecclesiologico della nave ancora molto attuale: la Chiesa, infatti, fin dai primi secoli della cristianità viene associata a una grande nave, che trasporta uomini di provenienza molto diversa, nel suo viaggio in contro all’Eterno attraverso un mare tempestoso.
Mentre al suo esterno un’imponente e spigolosa istallazione contemporanea sembra prendere vita attraverso la proiezione di immagini simboliche e suggestive; al suo interno diventa “luogo” interattivo in cui è possibile “toccare” con mano l’esperienza della traversata mediterranea: la fisicità degli oggetti, i suoni, le luci fanno di fatti intraprendere un viaggio introspettivo, alla scoperta di nuovi orizzonti possibili di solidarietà umana.
Fabio Raimondi
in catalogo mostra : il rumore del mare.
Diocesi di Caltagirone, 2017
Camillo Langone
…Sono contento di aver fatto arrivare l’ultimo clamoroso quadro di Giovanni Iudice, oggi, sulle pagine del Foglio. Giovanni Iudice, E’ quasi sera. Olio su tela, 170×120 cm, 2021. Collezione Nicola Volpi, Milano.
Quando la toponomastica non era devastata dalla politica Porta Garibaldi si chiamava Porta Comasina, siccome portava a Como. Oggi, per il Maestro di Gela mai così visionario, anziché al lago conduce al mare: altro dettaglio che fa pensare. Giovanni Iudice, E’ quasi sera Chiara Ferragni è molto più bella di King Kong, in compenso la Torre Unicredit è molto più brutta dell’Empire State Building. Giovanni Iudice, E’ quasi sera.
Federico Zeri, sebbene specialista di arte antica, arrivò alla convinzione che ci fosse “più pensiero in un centimetro quadrato dei pittori del nostro secolo che nelle grandi opere del passato”. E non aveva visto questo quadro!
Su IlFoglio , 12.06.2021