Jacopo Bassi

Jacopo Bassi

… L’artista siciliano Giovanni ludice, ha dedicato molte opere al tema dei migranti e dell’integrazione. In questo dipinto è la città di Venezia, luogo per eccellenza di scambi commerciali e culturali, a fare da sfondo all’arrivo di un barcone di immigrati: persone che nella maggior parte dei casi vengono rinchiuse in centri di detenzione temporanea, ma che, sembra volerci dire l’artista, dovremmo ospitare nelle nostre città in nome di quelli che fin dall’antichità sono i valori fondanti della nostra cultura. …

Storia di ieri, mondo di oggi.
Loescher Editore – Torino 2022

Ivan Quaroni

Ivan Quaroni

Le cento sicilie – Il più ibrido dei continenti

Giovanni Iudice, è pittore che rivendica orgogliosamente la sua formazione da autodidatta perché questa gli ha consentito di elaborare un linguaggio autonomo e originale, attraverso la costruzione di un processo che parte dalla fotografia, come espediente documentario, per svilupparsi poi nelle forme di una pittura engagé, in costante rapporto dialettico con la realtà storica e sociale. Eppure, la sua figurazione non si limita a documentare il reale e il quotidiano nelle forme più drammatiche o prosaiche, ma si offre all’osservatore come strumento ermeneutico, come dispositivo visivo in grado di innescare un processo d’analisi e valutazione del mondo contemporaneo.
Si tratti, nei dipinti precedenti, dei profughi e migranti che, esausti, approdano sulle nostre coste o, nelle opere più recenti, dei villeggianti e bagnanti che su quelle stesse marine oziano pigramente, il soggetto dei dipinti di Iudice è sempre l’umanità, nella duplice accezione di individuo e di massa.
Il carnaio umano, livido e tumefatto degli emarginati o pallido e lattescente dei vacanzieri, viene descritto con taglio radicalmente oggettivo, all’interno di un contesto naturale quasi stridente: quello delle spiagge, degli scogli, insomma della morfologia litoranea del gelese. Il mare, presenza costante nella pittura di Iudice, non fa semplicemente da sfondo allo svolgersi delle vicende umane, ma è, esso stesso, tema e contenuto poetico, scheggia visiva del vissuto quotidiano dell’artista e, insieme, immagine di ciò che è eterno e immutabile rispetto ai sommovimenti della storia.
Iudice risolve questa antitesi, questa aritmia tra l’attuale e il durevole soprattutto in termini grammaticali, costruendo un linguaggio solo apparentemente coeso. Un linguaggio dove la complessiva tessitura realistica è, piuttosto, il prodotto di visioni differenti, come si evince da certe sottili alterazioni prospettiche e da certe incongruenze ottiche che denunciano la natura squisitamente pittorica delle sue immagini. Elementi forse meno espliciti in dipinti come Vita, del 2018, o Contemplazione, dello stesso anno, ma manifesti in quadri come Vertigo (2019) e Solaris 3 (2018), dove emerge il carattere prammatico di una pittura che, come quella degli artisti tedeschi della Nuova Scuola di Lipsia, interpreta la figurazione realista non come forma di registrazione, ma come simultanea proiezione di percezioni e costrutti mentali. Solaris 3 è, in tal senso, un enunciato di questo lessico neorealista, dove coesistono disegno e pittura, dettaglio fotografico e mimetismo sintetico, figura compiuta e configurazione precaria, riflusso poetico e osservazione sociale la sua figurazione non si limita a documentare il reale e il quotidiano nelle forme più drammatiche o prosaiche, ma si offre all’osservatore come strumento ermeneutico, come dispositivo visivo in grado di innescare un processo d’analisi e valutazione del mondo contemporaneo.
Si tratti, nei dipinti precedenti, dei profughi e migranti che, esausti, approdano sulle nostre coste o, nelle opere più recenti, dei villeggianti e bagnanti che su quelle stesse marine oziano pigramente, il soggetto dei dipinti di Iudice è sempre l’umanità, nella duplice accezione di individuo e di massa. Il carnaio umano, livido e tumefatto degli emarginati o pallido e lattescente dei vacanzieri, viene descritto con taglio radicalmente oggettivo, all’interno di un contesto naturale quasi stridente: quello delle spiagge, degli scogli, insomma della morfologia litoranea del gelese. Il mare, presenza costante nella pittura di Iudice, non fa semplicemente da sfondo allo svolgersi delle vicende umane, ma è, esso stesso, tema e contenuto poetico, scheggia visiva del vissuto quotidiano dell’artista e, insieme, immagine di ciò che è eterno e immutabile rispetto ai sommovimenti della storia.
Iudice risolve questa antitesi, questa aritmia tra l’attuale e il durevole soprattutto in termini grammaticali, costruendo un linguaggio solo apparentemente coeso. Un linguaggio dove la complessiva tessitura realistica è, piuttosto, il prodotto di visioni differenti, come si evince da certe sottili alterazioni prospettiche e da certe incongruenze ottiche che denunciano la natura squisitamente pittorica delle sue immagini. Elementi forse meno espliciti in dipinti come Vita, del 2018, o Contemplazione, dello stesso anno, ma manifesti in quadri come Vertigo (2019) e Solaris 3 (2018), dove emerge il carattere prammatico di una pittura che, come quella degli artisti tedeschi della Nuova Scuola di Lipsia, interpreta la figurazione realista non come forma di registrazione, ma come simultanea proiezione di percezioni e costrutti mentali. Solaris 3 è, in tal senso, un enunciato di questo lessico neorealista, dove coesistono disegno e pittura, dettaglio fotografico e mimetismo sintetico, figura compiuta e configurazione precaria, riflusso poetico e os la sua figurazione non si limita a documentare il reale e il quotidiano nelle forme più drammatiche o prosaiche, ma si offre all’osservatore come strumento ermeneutico, come dispositivo visivo in grado di innescare un processo d’analisi e valutazione del mondo contemporaneo.
Si tratti, nei dipinti precedenti, dei profughi e migranti che, esausti, approdano sulle nostre coste o, nelle opere più recenti, dei villeggianti e bagnanti che su quelle stesse marine oziano pigramente, il soggetto dei dipinti di Iudice è sempre l’umanità, nella duplice accezione di individuo e di massa.
Il carnaio umano, livido e tumefatto degli emarginati o pallido e lattescente dei vacanzieri, viene descritto con taglio radicalmente oggettivo, all’interno di un contesto naturale quasi stridente: quello delle spiagge, degli scogli, insomma della morfologia litoranea del gelese. Il mare, presenza costante nella pittura di Iudice, non fa semplicemente da sfondo allo svolgersi delle vicende umane, ma è, esso stesso, tema e contenuto poetico, scheggia visiva del vissuto quotidiano dell’artista e, insieme, immagine di ciò che è eterno e immutabile rispetto ai sommovimenti della storia.
Iudice risolve questa antitesi, questa aritmia tra l’attuale e il durevole soprattutto in termini grammaticali, costruendo un linguaggio solo apparentemente coeso. Un linguaggio dove la complessiva tessitura realistica è, piuttosto, il prodotto di visioni differenti, come si evince da certe sottili alterazioni prospettiche e da certe incongruenze ottiche che denunciano la natura squisitamente pittorica delle sue immagini. Elementi forse meno espliciti in dipinti come Vita, del 2018, o Contemplazione, dello stesso anno, ma manifesti in quadri come Vertigo (2019) e Solaris 3 (2018), dove emerge il carattere prammatico di una pittura che, come quella degli artisti tedeschi della Nuova Scuola di Lipsia, interpreta la figurazione realista non come forma di registrazione, ma come simultanea proiezione di percezioni e costrutti mentali. Solaris 3 è, in tal senso, un enunciato di questo lessico neorealista, dove coesistono disegno e pittura, dettaglio fotografico e mimetismo sintetico, figura compiuta e configurazione precaria, riflusso poetico e osservazione sociale.

“Le cento sicilie-Il più ibrido dei continenti”
Ed Tyche, 2022

Maurizio Sciaccaluga

Maurizio Sciaccaluga

Il mondo in un angolo

Ammesso che abbia senso parlare ‘introversione e riservatezza riguardo la pittura, ritenuto possibile che possano esistere una figurazione urlata e, di contro, una rappresentazione muta e discreta, allora – a ragione – la ricerca di Giovanni Iudice può e deve essere definita riservata e silenziosa, paradossalmente adatta al sussurro nonostante quella sua ossessione iperrealista continuamente all’inseguimento di nuovi particolari da scoprire, descrivere e raccontare. Per quanto siano quasi sempre costruiti attorno al nudo femminile, alla morbidezza di corpi e carni e in un momento storico, dominato dalla comunicazione di massa, in cui gli unici valori estetici riconosciuti sembrano essere il gusto del glamour e un’ostentata bellezza vuota e assoluta i lavori del pittore siciliano non risultano mai in alcun modo aggressivi, non pretendono d’affascinare e incuriosire lo spettatore, non reclamano, con sfrontatezza, quell’attenzione violenta e morbosa che pure il tema raffigurato e la decadente cultura del nostro tempo potrebbero forse imporre. Il mondo di Iudice,
anche quando è esposto e messo sotto osservazione, anche mentre i suoi protagonisti sono studiati e pesati con la lente d’ingrandimento, resta sempre in un angolo, appartato e schivo. Rimane sempre lontano, nonostante sia sotto gli occhi di tutti. C’è, a guardare con calma le tele, a concedere loro tutto il tempo di cui hanno bisogno, uno strano movimento, uno spiazzante processo d’avvicinamento e insieme allontanamento dei soggetti dallo spettatore: se, da una parte, la precisa texture dei pavimenti, la decorazione millesimale delle stoffe e la maniacale riproposizione dei particolari dell’arredamento finiscono per attrarre gli sguardi, per precipitare la composizione al fianco, quasi tra le braccia, di chi la osserva, d’altra parte la posa dei prolagonisti, il loro atteggiamento di diniego (pur di fronte a una nudità completa), le loro espressioni disinteressate alla seduzione di chi li sta osservando hanno l’effetto di costruire una barriera insormontabile tra interno ed esterno dell’opera, di proiettare l’immagine in un’altra dimensione, parallela ma non tangente quella del pubblico. In pratica, seppure apparentemente conosciuto, seppure assolutamente vicino alla quotidianità, ai costumi e alle passioni degli spettatori, l’universo dipinto dall’artista non si concede mai del tutto, non si arrende alla curiosità, non cede. È evidente che né i luoghi né le figure ritratte abbiano qualcosa da nascondere, come è palese che nessun dramma, nessuna vicenda, nessun colpo di scena possa essere anche solo lasciato immaginare dalla composizione, eppure gli interni e i personaggi protagonisti dei quadri non si lasciano vincere dalla curiosità, non abbassano mai, nemmeno per un istante, le loro barriere naturali. Chi osserva le scene rappresentate – e, grazie a un iperrealismo fuori dall’ordinario, è in grado di scrutare dappertutto, in virtù d’una pittura certosina d’amanuense riesce a misurare ogni cosa nell’opera non le riesce comunque a possedere, non può in alcun modo farle sue. Perché, nelle immagini di pittore, ci sono quell’orgoglio e quella riservatezza, del tutto siciliani, tipici di un mondo dove l’essere non è stato ancora sopraffatto dall’apparire: come a dire, mi mostro ma non mi arrendo, sopporto ma non accetto. Mentre in Italia e all’estero si è andata affermando una figurazione mediale, modulata dalla piattezza formale e concettuale delle immagini televisive, Giovanni Iudice sulla scia della tradizione, lungo un percorso segnato a suo tempo dal realismo intimista continua a cercare su tela la terza dimensione. Ma non si tratta, semplicemente, di volume o prospettiva, non si tratta di linee di fuga e rappresentazione credibile e veritiera di un ambiente; la terza dimensione rintracciata dall’artista nei suoi lavori è la dimensione morale dell’uomo, è quella dignità che la cultura massmediale gli va via via sempre più negando. Le sue figure femminili sono ancora più *ARTE nude di quelle mostrate dal piccolo schermo, sono ancora più esposte alla curiosità degli spettatori, eppure nessuno riesce a reggere il loro sguardo diretto, riesce a piegare la loro indole forte e austera, riesce a mutare la Nello studio di Sandro. 2003 matita su carta, cm. 80×110 loro decisione. La pittura di Iudice ridà ai personaggi della nuova figurazione quello che molta parte della ricerca, per inseguire il successo più facile, ha loro tolto: il carattere. Sono personaggi a tutto tondo perché sono disegnati con capacità rara, perché sono sapientemente collocati e confrontati agli spazi ma, soprattutto, lo sono a causa di quella fierezza testimoniata dallo sguardo, per via di quella tranquillità che neppure l’occhio indiscreto di una pittura che fruga tra i segreti del corpo è capace di interrompere. Con apparente noncuranza, ma in realtà a seguito di uno studio e un pensiero lunghi e faticosi, Iudice colloca le sue figure in case semplici, senza pretese, dove tutto è a posto e di buon gusto ma nulla, proprio nulla, appare davvero degno di nota. Non ci sono cadute di tono, certo, ma né i bicchieri, né gli arredi, né il design possono mai eccellere, meritare punti di prestigio. Eppure, in queste case ammobiliate con modestia, tra mobili che forse non hanno mai visto veri splendori, ragazze belle ma assolutamente comuni assumono una statura monumentale, imponente, granitica. La loro carne è resa con la dovuta morbidezza, i loro difetti non sono amplificati, ma il pennello preciso dell’autore non punta a trasformarle in dee della bellezza moderna, in muse ispiratrici, in amori ideali; cerca piuttosto solo di ricostruirle all’interno, di riportare una volta per tutte sulla tela quello che il Novecento aveva saputo cogliere e che la cultura di fine millennio vuole dimenticare: la personalità, la bellezza interiore, quella sicurezza nelle proprie scelte e nel proprio essere che, inevitabilmente, finisce col riflettersi nei lineamenti e nella perfezione del corpo. A bene osservare i dipinti e le tante matite, ad analizzare con attenzione le fonti luminose riprodotte nelle raffigurazioni a colori di stanze e interni, ma anche il gioco di chiaroscuri sulle membra descritte in bianco e nero, Iudice è, con tutta evidenza, un maestro indiscusso nell’uso delle luci, nel saper ammorbidire i contrasti per tirar fuori dai contesti figure tanto delicate quanto pesantemente presenti. Ma, ancora una volta, se si dovesse giudicare l’artista solo per la capacità di riproduzione realistica, si commetterebbe un grossolano errore: i personaggi, che siano ritratti in ambienti ricchi, spogli o inesistenti, che siano ripresi in bianco e nero o nei toni rosa della carne, emergono sempre dalle ombre, hanno sempre sul volto una luce piena e sicura, bella senza essere abbagliante. E il lampo del carattere, il bagliore sicuro della consapevolezza.
In una figurazione dedita soprattutto a riprodurre le mancanze del mondo attuale, l’artista ragusano rappresenta una vera eccezione. La sua ritrattistica parte da lontano, dalle lezioni del Novecento, per raccontare oggi la necessità di una ricostruzione. Quella dell’uomo.

Camillo Langone

Camillo Langone

…E’ la storia del salvataggio di un falco, da tramandare ai nipoti (all’epoca non ancora nati eppure presenti in scena, grazie alla lungimiranza del committente e alla potenza della pittura).
Per Malaparte “non v’è al mondo nulla di più bello che il contemplare dall’alto di una riva il mare di Sicilia”. Iudice lo sa e racconta la storia di un uomo e di un falco dall’alto della costa di Gela. Giovanni Iudice. Il volo del falco. Olio su tela, 150×200 cm, 2022. Collezione privata, Gela.

Su Eccellenti Pittori , 2022

Thomas Deprez

Thomas Deprez

The light of life

In his hyper realistic way ludice is one of the few Sicilian painters of life in all its facets. An example of this unprejudiced look at life is to be found in his acclaimed series on refugees; documenting the universal stories of the human being on the move.
Art, however, should not always carry the burden of social topics. Giovanni ludice’s paintings are social documents registering the everyday life of everyday people. Realising the danger of skillful, but seem-ingly hollow painting, ludice makes sure never to lose its onlooker in his hyper realistic renditions. The artist plays with the apparent banality of images.
The contemporary spectator is only confronted in second instance with the idea that there is more to the image than is evident at first. ludice himself
once stated that you could not talk about reality without confessing there is a mysterious part to it.
The pictorial quality of the image seems to enhance that sense of mystery by a masterful choice of finish; sometimes leaving the preparatory drawing open and untouched, or contrasting colourful areas with areas where colour seems to have been washed away by the burning sunlight. Selected are paintings of his main body of works, dealing with leisure and the good life at the Sicilian coast. Considered by many nature’s greatest gift to the Sicilian people, the sun, we find these paintings bathing in that very light.
They are warm, open, honest and welcoming; in some way very alike to the Sicilian people.

dal Catalogo “The Light of Sicily”
Galleria Maere, Gent (Belgium).

Rischa Paterlini

Rischa Paterlini

Sono questi alcuni dei versi che compongono il brano Imagine di John Lennon, una delle più belle canzoni di sempre che, scritta nel 1971, combina a un suono melodico, che pare una ninna nanna, una pungente argomentazione sociale spingendoci a immaginare un mondo possibile, un mondo in cui si pensa più a costruire ponti che a edificare muri ma, come canta Lennon ad un certo punto, siamo in molti a pensarla allo stesso modo ma spesso temiamo di essere soli “Puoi dire che sono un sognatore ma non sono il solo” lasciando che il mondo vada come vada.
Giovanni ludice, nato e cresciuto a Gela nel 1970, dove ancora oggi in modo ostinato vive e, in modo ostinato combatte la sua condanna naturale alla solitudine e alle contraddizioni della sua amata Sicilia, pare trasformare in pittura le parole di denuncia di John Lennon perché l’unica cosa che lui vuole è proprio che non si lascino perdere le cose. Dalla metà degli anni 2000 infatti, la sua tenacia e forza di volontà – spesso ancora oggi dopo molti anni che ci conosciamo mi confessa “lo so di essere testardo” – lo ha portato a mettere su tela, come in un racconto, il dramma che milioni di persone vivono lasciando il loro paese per trovare una vita migliore: i migranti. Ragazzi provenienti da diversi stati, dal Senegal, dalla Tunisia, dalla Libia e dal Congo, in Sicilia si incontrano un po’ ovunque. Uno dice che da grande vorrebbe fare il pugile, un altro che vorrebbe fare il musicista, altri che vorrebbero terminare gli
studi ma tutti hanno un solo obiettivo: non subire più le atrocità della guerra, la violenza delle guardie armate e le intimidazioni dei fucili. Il loro viaggio è una sfida che Giovanni narra sulle sue tavole intervallando a volti di persone, vedute della sua terra ricca di forti e amare contraddizioni. L’interesse di Giovanni per il reale lo avvicina molto ai film di Federico Fellini o a quelli di Pier Paolo Pasolini, in particolare nel loro intento di ritrarre una vita vera, fatta di gente che dice quel che pensa anche se sono pensieri tremendi. I suoi disegni a matita paiono volutamente ingannevoli al punto di avere il dubbio di trovarsi davanti ad una fotografia. Nulla di male in questo perché lui, attraverso la ricostruzione minuziosa dei dettagli, dà una connotazione emotiva alla fotografia come nel caso della Natura morta con ossa nel piatto realizzato nel 2010. Una tavola apparecchiata, un piatto con avanzi di pollo e sullo sfondo un televisore acceso con il volto di un clandestino che guarda verso di noi.
“Avevo appena finito di mangiarlo io quel pollo” mi racconto Giovanni qualche tempo fa – “e, come spesso avviene nella nostra consuetudine, avevo acceso il televisore sul quale correvano immagini di clandestini e immigrati.
Ormai ci facciamo un’idea della realtà attraverso la televisione, un media di consumo molto veloce, che ci bombarda di messaggi. Ero li, ed è come se a un certo punto mi fossi sentito in dovere di far partecipare alla mia cena un clandestino”. Un racconto di cronaca tradotto in poesia, come un reporter dei sentimenti che descrive momenti di vita vissuta che non hanno nulla di sorprendente in sé ma sono pieni di una disarmante intimità. Il suo racconto, fatto di iperrealistiche e puntuali descrizioni di uomini, di luoghi e di mari, talvolta slitta verso il piano dell’immaginazione e della fuga nella memoria del racconto come in Nuvole a Venezia, del 2012, dove si apre uno spiraglio surreale. Quasi come in un sogno, una barca affollata di clandestini dai volti bruciati dal sole, le mani callose e gli occhi affaticati sembra terminare il lungo ed estenuante viaggio in una Venezia incantata.
La sensazione di una città romantica si lega alla speranza di una vita migliore. Una pittura dai blu intensi si unisce adesso ai toni soavi e tranquilli dei palazzi e ad una luce che sembra essere presa in prestito da un paesaggio di Canaletto. Un’atmosfera che rasserena, quasi a voler dire “finalmente, ce l’abbiamo fatta”; un mare che non è più simbolo di paure e di morte ma che sembra invece cullare la barca verso un silenzioso approdo. Alcune nuvole portate dal vento del passato nascondono o vestono una presenza, forse i piedi di un compagno perso nel viaggio.
Un lavoro questo, che, come spesso accade, ha visto la luce dopo mesi di lunghi e intensi scambi di corrispondenza con chi per lui è stato un ponte con il mondo reale che ha deciso di non vivere: il mondo delle soirée esclusive, dei balli del sabato sera in abito di gala seguiti dal brunch della domenica mattina, il mondo della gente sempre connessa, sempre in preda all’affanno di non farcela e senza mai un minuto da perdere, il mondo da bere, spesso poco attento ai dettagli e frettoloso nelle scelte, ma anche il mondo che aiuta, senza chiedere nulla in cambio, che anzi è aperto ai cambiamenti e generoso nei momenti difficili. Generoso, proprio come lo sguardo di Giuseppe lannaccone, un avvocato collezionista, parecchio conosciuto oltre che per i suoi grandi processi e la sua importante collezione d’arte internazionale, anche per la tenacia, l’altruismo e il suo grande amore per il Sud, la terra dove è nato e dove ha vissuto la sua infanzia e dove fa ritorno ogni volta che gli è possibile, vuoi per una questione professionale, vuoi per il suo Napoli o vuoi per andare a ritrovare i volti dei suoi amati famigliari o solo per rivedere il mare. Non manca mai, nelle telefonate quando è in trasferta in Sicilia o a Napoli, una frase dedicata ai luoghi: “è tutto irresistibile e magnifico”. Uomo di grande sensibilità, Giuseppe lannaccone, ha da sempre curato il lavoro di Giovanni di cui si innamorò osservando un piccolo disegno alla Fiera di Bologna nel 1998, una spiaggia popolata da una moltitudine di gente che, ammassata, tentava di trovare un poco di refrigerio in quel luogo scottato dal sole del Sud. Un artista che da quel momento in poi lannaccone sostenne in modo caparbio, nonostante tutti gli dicessimo fosse una follia, permettendogli prima, di smettere di fare l’infermiere per dedicarsi a tempo pieno alla pittura e poi aiutandolo quotidianamente sia con conversazioni puntuali e attente su quanto accadeva nel mondo sia comprandogli le più belle opere che Giovanni abbia realizzato. “Da questo momento in poi” racconta spesso l’avvocato “ è iniziata tra noi una relazione umana che è andata ben oltre il mero rapporto artista-collezionista. Forse per la prima volta si può parlare di un’osmosi totale, perché io non mi sento solo colui che gli compra le opere, ma una persona con cui discute d’arte e parla dei progetti futuri”.
Ed è così che, giorno dopo giorno, anno dopo anno, Giuseppe lannaccone è arrivato ad avere oggi circa una sessantina di suoi lavori. Opere da quelle più personali dedicate ai ritratti dei suoi amati figli a quelli più di denuncia, nati appunto dalla grande sensibilità di confronto tra Giovanni e l’Avvocato. “I nostri incontri” – prosegue lannaccone quando racconta la loro storia – “si infittirono, veniva spesso a trovarmi a Milano e percepivo in Giovanni una tensione positiva che mi ricordava la necessità di scavare nell’animo umano, nella sofferenza fisica e piscologica di uomini sopraffatti dalla vita che Fausto Pirandello aveva ben espresso nelle sue tavole stracolme di corpi sfatti e nudi sulle spiagge dei primi anni Trenta. Leggevo negli occhi di quel giovane artista uno slancio verso la sua amata Sicilia … Questa grande passione verso l’animo umano si è tramutata, a partire dalla metà degli anni Duemila, in un nostro dialogo costante sull’immigrazione. Penso che Giovanni abbia riconosciuto nella figura del clandestino una delle icone più rappresentative del contemporaneo, un nomade pieno di speranze che immagina la terra promessa con la morte nel cuore per la patria che ha lasciato. Fin da subito ho avuto la sensazione che i suoi dipinti dimostrassero una presa di coscienza forte del problema immigrazione che ancora oggi, passati più di quindici anni, occupa le pagine di cronaca dei quotidiani”. Oggi questi lavori sembrano essere dedicati agli occhi miopi di politici di propaganda, di gestori di hedge fund e di agenzie di “valutazione del rischio” che vivono in un universo tutto loro, in un’atmosfera che ha il sapore di Antico Regime, che di fronte ad una crisi come quella che da anni stiamo vivendo, si preoccupino solo di dove spostare i loro soldi per diventar più ricchi o, ancora peggio, di lasciare centinaia di persone in mezzo al mare per combattere un braccio di ferro con Bruxelles, così da avere più soldi e meno uomini.
Nonostante da qualche tempo Giovanni sembra voler abbandonare il tema dei migranti perché sempre più utilizzato a fini propagandisti, dall’altro non riesce a non fare i conti con la realtà che lo circonda e, senza far rumore, ci ha regalato Asino, 2018 d.C.
Da un lato, una tavola racchiusa in una cornice fatta di materiali grezzi, metallici, corrosi dalla ruggine, estranei alla tradizione, che ricordano le imbarcazioni dei profughi. Volti di clandestini si affacciano da questo oblò con lo sguardo diretto verso di noi, spaventati ma desiderosi di vivere, descritti con autenticità e crudezza, stipati quasi a togliere il respiro, rappresentati in un realismo tale da far sentire il rumore delle onde che sbattono sul metallo del barcone. L’artista, che si raffigura in un angolo della tavola, spogliato dei suoi abiti, sembra quasi voler condividere con loro la sofferenza che anche lui ogni giorno prova verso la sua amata terra e che descrive nell’altro pannello laterale. Sofferenza per le contradizioni nel paesaggio che, rurale, arido e abbandonato dal tempo fa pensare al passato senza immaginare un futuro; sofferenza per le contraddizioni fra visioni di gente ostile al cambiamento e l’umanità di uomini pronti a dare la vita per gli altri e che troppo spesso si sentono soli.
Soli, come quell’unico papavero rosso che, simbolo di pace, nel suo unico giorno di vita, campeggia orgoglioso tra i colori terrosi di Sicilia. Indifferenza per gli “ultimi”, come quel bell’asino, che, con uno sguardo attonito e orecchie dritte, ci osserva dalla cima di una duna, quasi a rimproverarci per la nostra incapacità di capire il dolore, lo stesso che attraversa gli occhi di Masha, l’unica donna protagonista dell’oblò e che Giovanni ci ripropone nella tavola centrale a chiudere il trittico. Una forte presenza fisica è quella di questa giovane donna che, seduta su un trono a noi invisibile, in un paesaggio notturno, dove tutto riluce del chiarore lunare, pare una moderna Madonna con Bambino.
I capelli sono nascosti da un abbondante mantello bianco caratterizzato da un delicato motivo floreale facendo risaltare i lineamenti del suo bel volto che, nonostante sia affaticato dal lungo viaggio, è felice per la nascita di Mobruk, il figlio che tiene sulle sue ginocchia. Quasi come in un collage il neonato – diverso da lei per tratti e colore – pare essere ritagliato e posato tra il manto di colore blu, simbolo del cielo e quindi del divino, e quello rosso che al contrario, nella tradizione pittorica è il colore del sangue e quindi della natura umana.
Ne “Il giorno della civetta”, Leonardo Sciascia descrisse l’umanità attraverso un dialogo tra Don Mariano Arena e il Capitano Bellodi: “lo ho una certa pratica del mondo. E quella che diciamo l’umanità, e ci riempiamo la bocca a dire umanità, bella parola piena di vento, la divido in cinque categorie: gli uomini, i mezz’uomini, gli ominicchi, i pigliainculo e i quaquaraquà. Pochissimi gli uomini, i mezz’uomini pochi, ché mi contenterei l’umanità si fermasse ai mezz’uomini. E invece no, scende ancora più giù, agli ominicchi, che sono come i bambini che si credono grandi, scimmie che fanno le stesse mosse dei grandi. E ancora più giù, i pigliainculo, che vanno diventando un esercito. E infine i quaquaraquà che dovrebbero vivere come le anatre nelle pozzanghere, ché la loro vita non ha più senso e più espressione di quella delle anatre. Lei, anche se mi inchioderà su queste carte come un Cristo, lei è un uomo”. Sciascia, negli anni sessanta, parlava di Sicilia, di denuncia alla mafia e di omertà. Oggi si parla di Italia, di Uomini, di cambiamento ma alla fine, seguitiamo a lasciare tutto com’è.

In Pratica 6,
dalla Collezione Giuseppe Iannaccone, Milano

Camillo Langone

Camillo Langone

…Sono contento di aver fatto arrivare l’ultimo clamoroso quadro di Giovanni Iudice, oggi, sulle pagine del Foglio. Giovanni Iudice, E’ quasi sera. Olio su tela, 170×120 cm, 2021. Collezione Nicola Volpi, Milano.
Quando la toponomastica non era devastata dalla politica Porta Garibaldi si chiamava Porta Comasina, siccome portava a Como. Oggi, per il Maestro di Gela mai così visionario, anziché al lago conduce al mare: altro dettaglio che fa pensare. Giovanni Iudice, E’ quasi sera Chiara Ferragni è molto più bella di King Kong, in compenso la Torre Unicredit è molto più brutta dell’Empire State Building. Giovanni Iudice, E’ quasi sera.
Federico Zeri, sebbene specialista di arte antica, arrivò alla convinzione che ci fosse “più pensiero in un centimetro quadrato dei pittori del nostro secolo che nelle grandi opere del passato”. E non aveva visto questo quadro!

Su IlFoglio , 12.06.2021

Fabio Raimondi

Fabio Raimondi

il rumore del mare.

Cosa fa dell’uomo di ogni tempo un homo viator? Cosa spinge cioè l’essere umano a muoversi dal luogo in cui si trova per raggiungerne un’altro? Tante possibili risposte potrebbero essere date a questa domanda, che in realtà altro non è se non una domanda di senso. La ricerca della felicità è stata da sempre la forza motrice del cammino dell’uomo, un cammino che spesso si colora delle tinte della disperazione, ma che motiva l’accettazione del sacrificio, il coraggio del rischio. Cosa ci sia dietro a una scelta come quella fatta da tanti “migranti” non è poi così immediato comprenderlo: se è possibile intuirne i tratti generali, cioè da cosa si fugge e dove si spera di approdare, non è altrettanto facile decifrare le ragioni profonde che si nascondono nell’animo umano, ragioni queste il più delle volte non chiare nemmeno a colui che decide di intraprendere il “viaggio Ritornano alla mente le parole che Dio rivolge ad Abramo:
“Vattene dal tuo paese, dalla tua patria e dalla casa di tuo padre, verso il paese che io ti indicherò.” (Gn 12,1). È un cammino senza alcuna certezza, un viaggio che apparentemente non ha altra meta se non la fede in un Dio bizzarro, che spinge a superare i propri limiti, a tuffarsi nell’ignoto mare, che può dare la morte o la vita.
Di fronte a una tale prospettiva c’è chi si ferma, chi non è disposto a rinunciare alle proprie sicurezze magari acquisite con grande fatica e rimane in una situazione di stallo, che però ha già l’odore del sepolcro, probabilmente imbiancato da tempo.
Di contro c’è chi non rinuncia alla vita, chi sente emergere dentro di sé il bisogno di orientare il proprio sguardo su nuovi orizzonti e preferisce affrontare anche i pericoli del viaggio pur di avere un’altra opportunità, correndo anche il rischio di non trovare ciò che si cerca e di rimanere ulteriormente deluso. Tuttavia questo non spegne il bisogno di essere vivo e di stringersi nella solidarietà del disagio comune; ci si convince che vale la pena intraprendere il cammino, ci si affida a situazioni e mezzi forse tra i meno sicuri, perché si sente troppo forte il bisogno di approdare a lidi di pace, ben diversi da quelli insanguinati da cui si fugge.
Allora il rumore del mare, solcato da imbarcazioni di fortuna, ha tutto un’altro suono: alle orecchie di chi non si rassegna all’ingiustizia e alla violenza, ‘infrangersi dei flutti sulla carena della barca è un suono di speranza: rincorrere la vita non è più un desiderio, ma un sogno che sta per realizzarsi. Così probabilmente apparirà la Sicilia agli occhi lucidi se pur stanchi dei numerosi migranti che approdano sulle nostre coste.
Com’è diverso questo viaggio da quello di Abramo! Quanto simile è invece la condizione del cammino: si affrontano mille ostacoli, disagi di ogni genere e quando i piedi nudi toccano la molle consistenza della sabbia, si fa strada la convinzione che in realtà il viaggio è appena iniziato.
Qui invece comincia il percorso di chi abita la “terra promessa”, di chi si trova dall’altra parte della “fuga” e costituisce invece la speranza. Si, perché siamo tutti accomunati nel migrare: spesso lo si fa per fuggire ma anche per accogliere, andare verso, camminare accanto, risollevare, curare e custodire quanto di più prezioso abbiamo ricevuto. È la vita, che non ha bisogno di essere relegata dentro una determinata cultura, perché pervasa da molteplici espressioni culturali e diventa fonte di ricchezza per l’uomo di ogni tempo; a maggior ragione per l’uomo contemporaneo, troppo distratto dal mondo virtuale racchiuso nel palmo di una mano, ma poco attento o forse poco disposto alle relazioni concrete.
L’uomo di questo tempo storico, infatti, viene quotidianamente sommerso dalla valanga di informazioni che arrivano da ogni parte del pianeta, mentre i contenuti importanti sono soffocati da una non ben definita quantità di informazioni futili, se non addirittura dannose. Proprio da qui nasce l’esigenza di veicolare ancora una volta un messaggio forte, stavolta però lasciando parlare l’arte.
In una terra come la Sicilia che possiamo definire bedda, cioè ricca di storia, cultura e arte, ma anche marturiata perché spesso teatro di tragedie umane sotto diversi punti di vista, si colloca lo sguardo attento di Giovanni Iudice, che coglie uno dei drammi della nostra contemporaneità, trasformandolo in arte pittorica.
La precisione dell’immagine così realistica da sembrare fotografica non rappresenta solamente l’estro dell’artista, ma comunica un forte messaggio, capace di porre domande a coloro che osservano con occhio attento i migranti clandestini della collezione lannaccone, esposta a Caltagirone presso il Museo diocesano, dopo l’allestimento fiorentino.
Sappiamo bene come l’immagine oggi sia diventata uno dei principali mezzi di comunicazione, che per la sua immediatezza spesso dice molto più delle parole: catturare e immagazzinare immagini è dunque la via brevis per cominciare uno dei possibili percorsi di conoscenza. Il sottotitolo di questa riflessione denuncia infatti che il “guardare fuori” è il primo approccio per scoprire che è necessario “vedere dentro”, confrontandosi con il silenzio più che eloquente delle opere di Iudice.
Avere occhi in grado di guardare per raccogliere il dato non implica però necessariamente un effetto performante. La mostra pertanto può diventare l’occasione per regalarsi del tempo, per stoppare la frenesia dei ritmi quotidiani e lasciarsi arricchire dalla forza comunicativa delle opere esposte. Guardare per vedere è il binomio per relazionarsi con chi ti passa accanto e comprendere quanto non si è dissimili da chi ha lasciato tutto alla ricerca dell’ignoto.
I dipinti esposti si configurano perciò come finestre aperte sul dramma dell’uomo contemporaneo, che portano l’osservatore a vedere dentro di sé, a vivere intimamente il dramma umano, a scoprire e attivare le potenzialità nascoste nelle pieghe del suo essere “uomo-accanto” all’uomo del nostro tempo.
All’interno della suggestiva Cappella neogotica del Museo, la forza comunicativa delle opere viene supportata da un allestimento che fa entrare quasi concretamente nel dramma dei migranti, anche attraverso un’ambientazione simbolica del “barcone”, in cui le opere sembrano quasi gli oblò di una nave
stracolma di clandestini. Altrettanto intenso è anche il significato ecclesiologico della nave ancora molto attuale: la Chiesa, infatti, fin dai primi secoli della cristianità viene associata a una grande nave, che trasporta uomini di provenienza molto diversa, nel suo viaggio in contro all’Eterno attraverso un mare tempestoso.
Mentre al suo esterno un’imponente e spigolosa istallazione contemporanea sembra prendere vita attraverso la proiezione di immagini simboliche e suggestive; al suo interno diventa “luogo” interattivo in cui è possibile “toccare” con mano l’esperienza della traversata mediterranea: la fisicità degli oggetti, i suoni, le luci fanno di fatti intraprendere un viaggio introspettivo, alla scoperta di nuovi orizzonti possibili di solidarietà umana.

Fabio Raimondi
in catalogo mostra : il rumore del mare.
Diocesi di Caltagirone, 2017

Camillo Langone

…Sono contento di aver fatto arrivare l’ultimo clamoroso quadro di Giovanni Iudice, oggi, sulle pagine del Foglio. Giovanni Iudice, E’ quasi sera. Olio su tela, 170×120 cm, 2021. Collezione Nicola Volpi, Milano.
Quando la toponomastica non era devastata dalla politica Porta Garibaldi si chiamava Porta Comasina, siccome portava a Como. Oggi, per il Maestro di Gela mai così visionario, anziché al lago conduce al mare: altro dettaglio che fa pensare. Giovanni Iudice, E’ quasi sera Chiara Ferragni è molto più bella di King Kong, in compenso la Torre Unicredit è molto più brutta dell’Empire State Building. Giovanni Iudice, E’ quasi sera.
Federico Zeri, sebbene specialista di arte antica, arrivò alla convinzione che ci fosse “più pensiero in un centimetro quadrato dei pittori del nostro secolo che nelle grandi opere del passato”. E non aveva visto questo quadro!

Su IlFoglio , 12.06.2021

Elisabetta Sgarbi

Elisabetta Sgarbi

Una presenza costante

Giovanni Iudice nasce e vive a Gela. Sulla spiaggia di Gela arrivano i barconi tracimanti di persone che lasciano la propria casa nella speranza di una nuova vita. Questi sbarchi, arrivi, morti non possiamo lasciarli alla cronaca. Devono diventare storia. Il loro dolore, il loro rischio, la loro nostalgia devono diventare storia, nel senso che il loro destino deve incarnarsi e intrecciarsi nel nostro destino. La storia ha questo respiro più ampio della cronaca, che invece tende a spegnersi con la cronaca del giorno dopo. La storia si rinnova conservandosi, la storia diventa memoria collettiva che si tramanda silenziosamente di anima in anima, diventa carne e sangue, come il Principe danese di Rilke pretende per l’aspirante poeta, prima che questi scriva la prima parola del primo verso.
Il salto che Giovanni Iudice chiede agli eventi di cui è spettatore quotidiano, e il salto che chiede a se stesso, è di trasformare quegli eventi, quei fatti quotidiani, da deboli frammenti di cronaca in storia.
Ouesta trasformazione è un procedimento complesso che, per ludice, transita nello strumento principe della cronaca: la fotografia. E persino attraverso il procedimento più ambiguo della fotografia che è il fotomontaggio (Sbarco a Lampedusa, 2007). In questo confronto Iudice rivela – al di là di un pur esplicito richiamo alla pittura classica figurativa – il suo caratte re prettamente contemporaneo
Nelle sue istantanee pittoriche, Iudice conserva l’attimo fata le della fotografia, il punctum, ma lo sottrae, nello stesso tempo. alla sua immobilità nel tempo. La forza del suo segno pittorico, il colore o la matita irrorano le linee e le forme fotografiche dando loro nuova vita, e una vita che non ci guarda dal passato immoto ma da un costante presente. L’arte non è eterna, come spesso si dice: semmai è sempre presente, resiste al farsi
“passato”, ci guarda sempre dal e nel qui e ora. Gli occhi degli sbarcati di Iudice ci guarderanno sempre, perché sono gli occhi della disperazione e della fatica. Non c’è più nulla dell’orgoglio operaio di Pelizza da Volpedo o di quello contadino di Gorni.
C’è il freddo e la fragilità (Senza titolo-Clandestini, 2008); lo spaesamento (Ospedale, 2011); c’è la fame atavica, animale di chi non può mangiare e guarda il cibo già consumato (Natura morta con piatto e osso, 2010); c’è l’attesa massificata e inumana (Sbarco a Lampedusa, 2007); c’è la paura (Clandestini, 2007). Ci sono insomma, nei lavori di Iudice stati essenziali della umanità sfinita e senza cielo. E poco importa, qui, se il cielo assente sia quello di Dio o quello tutto orizzontale del Sol dell’Avvenire. Gli orizzonti di questi uomini e donne sono raccorciati: gli occhi sono bassi, implorano la vita, incapaci di vedere spazi più ampi, anche qualora ci fossero. Non c’è speranza, perché è occlusa dalla paura e dal bisogno.
Ouesta “presenza costante” raggiunta dall’opera di Iudice è raggiunta anche attraverso l’utilizzo della materia viva (e morta) dello sbarco. Il carattere figurativo della pittura di ludice incontra, in questo caso, la forza bruta e sorda delle cose sbattute sulle coste italiane. Iudice le raccoglie fisicamente dal “suo” mare perché esse non sono solo cose, sono cose cariche di umanità, sono espressioni significative di un mondo che il pittore intende restituire. E su questa materia Iudice lavora, portandola in primo piano.
La Fondazione Elisabetta Sgarbi conserva uno sbarco, matita su carta su lamiera. La mostra espone due straordinarie opere siffatte: Clandestini, 2006-2007, su vetroresina e Famiglia clandestina. 2007, olio su tavola di ferro.
La materia resiste alla cronaca, trasforma il brulichio dei fatti in significato storici che continuano a interrogarci.
Ma, si sa, tutte queste sono parole sempre al di sotto dell’opera e della forza pittorica che esse sprigionano. La qualità di Iudice che sorprese e motivò Giuseppe lannaccone a farsi suo collezionista e mecenate – sta, ora come allora, difronte allo spettatore. La Milanesiana, grazie a Giuseppe lannaccone che è proprietario di quasi tutte le opere esposte quest’anno come tempo fa il mio cinema – tentano di darne testimonianza e risalto.

dal catalogo Il Rumore del Mare, per Milanesiana,
Palazzo Medici-Riccardi, Firenze. 2017

Ivan Quaroni

Ivan Quaroni

La pratica della pittura
Perizia e ricerca nella Sicilia contemporanea

…L’interesse di Giovanni Iudice per la realtà quotidiana si traduce in una pittura attenta a riprodurre il vero in ogni suo aspetto. La mimesi raggiunge effetti quasi fotografici, ma la sua può essere considerata una ricerca fedele non solo alle apparenze (luci, ombre, consistenze del mondo reale), ma anche ai risvolti, talvolta drammatici, della vita contemporanea. La sensibilità verso le recenti tragedie dei migranti, che ha dato il via a un intero ciclo di opere sul tema, convive con la curiosità verso i riti sociali dei turisti e dei bagnanti sulle coste, con l’interesse per la particolare morfologia del paesaggio, ma anche con lo studio della dimensione intima e privata degli interni domestici. Si avverte, comune ad ognuno dei filoni della sua ricerca, un vivo senso di partecipazione, di complicità nei confronti delle vicende umane, un tratto, questo, molto raro nella pittura contemporanea, spesso più propensa a evidenziare gli aspetti deteriori della società. Nonostante il crudo realismo col quale ha saputo raccontare il disagio dell’immigrazione (Umanità, 2010-11), Iudice, rimasto estraneo al sarcasmo e
allo snobismo culturale di tanta sedicente “arte impegnata”, mesce a restituirci un immagine veritiera, nella forma come nella sostanza, delle contraddizioni del presente.

(in catalogo della mostra “la pratica della pittura”, Spatafora (ME) 2016 Magika Edizioni